Marta Sanz (Madrid, 1967) è una scrittrice spagnola. Ha esordito nel 1995 con il romanzo El frío; in seguito ha sperimentato diversi generi letterari e con il romanzo Showbiz ha ottenuto nel 2015 il Premio Herralde. Attualmente collabora inoltre con El País e altre testate giornalistiche.
Gli articoli qui di seguito sono riprodotti per gentile concessione di El País.
di Marta Sanz
articolo pubblicato in El País
traduzione di Rosamaria Boccitto
Quando scrivo la mia rubrica tendo ad avere un certo entusiasmo: un evento innesca un pensiero che poi condivido da una distanza imprudente. Cerco di osservare senza cliché un punto distante dalla vertiginosa attualità informativa. Oggi confesso che ciò che ci sta accadendo mi annienta: la pandemia, tutt’altro che ispiratrice – parola mortificata in una orribile esaltazione e pacchianeria –, mi blocca. Non sono all’altezza. Non riesco a trovare l’atteggiamento giusto. Mi irrita il tono apocalittico di chi già lo preannunciava, ma anche quelle faccette sorridenti che fanno un consumo smodato di dolci e del loro contrario glicemico: il body building. Non so se è la disperazione, la puerilità, l’ignoranza, la paura o tutto l’insieme che porta le sette evangeliche a organizzare affollate serate di preghiera o che spinge un ottantenne a scappare dalla casa di riposo. Le mie emozioni si confondono: forse quell’anziano è uno tenace che scappa da quello che considera un letamaio o è un egoista a cui non importa che l’epidemia si insedi a casa sua e stermini i suoi cari. Detesto quella nostalgia che mi fa piangere quando vedo Cachitos de hierro y cromo e Jaime Urrutia che canta Pecados más dulces que un zapato de raso. Non mi concedo molto sentimentalismo, anche se so che piangere aiuta a liberarsi. Mi urtano un po’ gli zombie, la fantascienza, il Soylent Green, il fatto che “tutto è già stato raccontato”, e allo stesso tempo mi spaventa l’idea rivelatrice che la nostra angoscia derivi dalla paura dell’ignoto. Come la mettiamo? A volte mi esaspera e a volte rido con un senso dell’umorismo ad hoc: un uomo in pigiama assicura di non essere mai stato tanto stressato come in tempo di quarantena. Io stessa commetto errori. Non voglio essere l’uccello del malaugurio ma neanche troppo incoraggiante, né spiritosa né iettatrice, né riflessiva né voglio dire che anche questa passerà o che non passerà mai. Poi penso che ognuno fa ciò che può. Non so bene cosa pensare, cosa sentire, come comportarmi. Non sono a mio agio nel mio corpo. Non riesco a prendere una posizione: spero perdoniate uno smarrimento che è forse simile allo stato d’animo generale. La mia momentanea stonatura.
Tuttavia, esigo da me stessa di riprendermi. Esigo da me stessa un’allegria fuori dal comune per riuscire a superare immagini che persisteranno nella memoria: una pista di pattinaggio trasformata in camera mortuaria, che si vende come una piroetta dell’immaginazione neoliberale dinanzi alla catastrofe, mentre alcune terapie intensive di ospedali pubblici sono rimaste chiuse per gli effetti deleteri della privatizzazione. Esigo da me stessa un’allegria incontenibile per accompagnare la solitudine di chi muore da solo e di chi solo rimane, senza la possibilità di dirsi addio. Un’allegria vigorosa per oppormi a certe proposte, come quella di negare l’assistenza sanitaria agli immigrati irregolari durante il periodo d’allerta. Desidero la fine dell’epidemia per tornare a godere delle piccole cose che ci donano una felicità ragionevole, ma esigo da me stessa anche un’allegria rivoluzionaria e una buona dose di cattiveria e vetriolo – la bontà si accoda – cosicché, quando tutto ciò finirà e cambierà, seppure molte cose rimarranno uguali, cioè purtroppo asseconderanno i comodi dei padroni della parola e del capitale, noi continueremo a essere i guastafeste di un sistema insostenibile.